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Lorenzo Borga
Sky Tg24
“Ci vogliono 20 anni per costruirsi una reputazione e solo 5 minuti per rovinarla per sempre”. Donald Trump avrebbe forse dovuto ascoltare i consigli di Warren Buffett prima di lanciarsi negli annunci di nuovi dazi nel cosiddetto “Giorno della liberazione”.
Facciamo rewind e torniamo ai giorni precedenti all’annuncio del 2 aprile. Le principali banche e case d’affari prevedevano un limitato effetto delle tariffe su crescita e inflazione negli Stati Uniti. Secondo gli economisti, l’impatto sui prezzi interni avrebbe dovuto essere temporaneo, mentre sul PIL le scelte di Trump avrebbero dovuto pesare maggiormente, complice l’enorme incertezza che ostacola investimenti e assunzioni.
C’era quindi da scommettere su un ribasso dei rendimenti dei titoli di Stato americani. Vale a dire un taglio dei costi di finanziamento dell’enorme debito pubblico statunitense, un obiettivo dichiarato dall’attuale amministrazione. Non solo a beneficio delle casse federali, ma anche dei molti americani che contraggono debiti per acquistare casa (con un mutuo) o arrivare a fine mese (con le carte di credito). Il fatto che per raggiungere tale traguardo fosse necessario auto-infliggersi un calo degli investimenti e dell’occupazione appariva una scelta bizzarra a molti all’esterno della Casa Bianca. Ma Trump ci aveva già abituato a scelte in controtendenza.
Torniamo ai fatti: il 2 aprile Trump ha annunciato dazi significativamente più alti delle previsioni e non ha fornito una strategia chiara sulla propria politica commerciale. Wall Street ha reagito con una valanga di vendite. Ma il debito americano si è comportato come previsto, almeno inizialmente: gli investitori hanno comprato titoli di Stato USA, nell’ottica di guadagnare dai nuovi tagli dei tassi d’interesse che si prevedeva sarebbero arrivati dalla Federal Reserve, ma soprattutto alla ricerca di un bene rifugio a cui aggrapparsi mentre tutto il resto crollava.
Tuttavia, a partire da lunedì 7 aprile il vento è cambiato. I titoli di Stato americani hanno subito uno dei peggiori sell-off della storia, il più violento dal 2001. Il mercato più liquido del mondo in poche ore si è inaridito come non accadeva dai fallimenti bancari regionali del 2023 e dal COVID. Tra gli investitori non si è parlato d’altro: i titoli privi di rischio per eccellenza, lo scoglio sicuro nei momenti di maremoto, lo strumento finanziario principe su cui tutte le società del mondo parcheggiano la propria liquidità, il collaterale di quasi tutte le transazioni e i contratti finanziari, ora paga un premio al rischio. Il Trump-premium è stato definito.
Una montagna di vendite che ha contribuito, secondo lo stesso presidente consigliato dal suo segretario al Tesoro Scott Bessent, al passo indietro temporaneo sui dazi. Voci ascoltatissime a Wall Street come Mohamed El-Erian, Jamie Dimon e Ray Dalio hanno fatto passare lo stesso messaggio: siamo arrivati molto vicini a rompere il dominio del dollaro e del sistema finanziario americano. Molto peggio di un’ormai probabile recessione, come ha detto Dalio.
Cosa abbia scatenato la violenta vendita di titoli di Stato americani non è ancora chiaro. Fattori tecnici, movimenti dall’estero (la Cina è il secondo detentore straniero dopo il Giappone) smentiti da Bessent o una generale perdita di fiducia e strategia di de-risking dal mercato che vale oltre il 70% dell’indice azionario MSCI World. Un momento-Liz Truss, come lo ha definito il New York Times.
Di certo, l’appetito per gli investimenti sicuri non è venuto meno. Anzi. I titoli di Stato più apprezzati – Germania, Svizzera, Giappone, Regno Unito – hanno goduto di buone performance: gli investitori li hanno acquistati, il prezzo è dunque salito e il rendimento è calato (o, nel caso di Londra, è rimasto stabile). Ben diverso da quanto accaduto a Washington, che ha visto i propri rendimenti salire del 5%.
Gli investitori sono dunque alla ricerca di alternative per la propria liquidità, che tuttavia scarseggiano. I safe asset per essere tali devono essere “noiosi”: prevedibili, molto liquidi, poco volatili. Lo yuan non è da prendere in considerazione vista la discrezionalità con cui il Partito comunista cinese può manipolarlo. Ci sarebbe l’euro, ma pecca sul requisito di liquidità: il Bund tedesco – che pure è stato molto acquistato nelle ultime due settimane – ha un mercato troppo limitato per rispondere alla fame dell’intero mondo finanziario e i titoli di debito emessi dalla Commissione europea sono ancora troppo acerbi.
Questo vicolo cieco presenta due ordini di problemi. Per gli Stati Uniti, la perdita del dominio del dollaro farebbe collassare l’unica gamba sana della bilancia dei pagamenti che garantisce stabilità a un treppiede già azzoppato dal deficit commerciale e da quello del bilancio pubblico. Per il resto del mondo, l’assenza di un’alternativa valida che garantisca la stessa sicurezza, affidabilità e liquidità del dollaro americano.
Alberto Prina Cerai
Junior Research Fellow ISPI
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Paolo Magri
Managing Director e President Advisory Board ISPI
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