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Alberto Prina Cerai
ISPI Junior Research Fellow 

Dopo l’incontro di Ginevra, la guerra commerciale USA-Cina sembra essere entrata in una fase di apparente de-escalation, con un ruolo decisivo giocato dalle "terre rare".

L’arma delle “terre rare”

Focus

La Cina esportatrice

Solo nel 2024, secondo i dati della China Customs, le industrie cinesi hanno esportato più di 58.000 tonnellate di magneti di terre rare, la maggior parte delle quali (oltre il 50%) dirette verso Unione europea e Stati Uniti: due aree dove la produzione industriale di auto è consistente, dietro solo alla Cina.

Dopo l’incontro di martedì 10 giugno a Londra, i rappresentanti al commercio di Stati Uniti e Cina hanno annunciato di aver raggiunto un accordo di massima. Si tratta del secondo momento, a seguito dei colloqui di Ginevra e delle ripetute dichiarazioni di Donald Trump di voler raggiungere un’intesa con Xi Jinping, in cui la “guerra” commerciale sembra arrivare a una fase di raffreddamento. Della questione si sa ancora poco, ma apparentemente l’intesa sarebbe stata raggiunta grazie alla concessione di Pechino su una delle questioni al centro della competizione e relazione tra le due superpotenze: le terre rare.
 

Materie prime critiche e questioni geopolitiche e geoeconomiche


In generale, le materie prime critiche sono entrate a gamba tesa nelle questioni geopolitiche e geoeconomiche, oltre a essere diventate la moneta di scambio su altri dossier, come l’Ucraina, negli scorsi mesi. Ma è il fronte commerciale tra Washington e Pechino ora a tenere banco. Il governo cinese ha deciso di strumentalizzare nuovamente l’arma delle “terre rare” per mettere massima pressione su Washington in una fase molto calda delle relazioni bilaterali.

In risposta ai dazi imposti da Trump (nonostante la tregua di 90 giorni negoziata a Ginevra l’11 maggio scorso), ma anche nell’ottica di portare al tavolo dei negoziati gli Stati Uniti per ottenere un rilassamento dei controlli sull’export di software e chip avanzati, il ministero del Commercio (MOFCOM) ad aprile ha varato una serie di export control su 7 elementi delle terre rare particolarmente importanti (come disprosio, terbio e samario, terre rare “pesanti” sulle quali la Cina ha il 100% della produzione considerando anche le attività estrattive sotto suo controllo in Myanmar) per lo sviluppo di magneti ad alte prestazioni impiegati nell’automotive ma soprattutto in alcuni sistemi avanzati di difesa.

Non è un caso che il Pentagono abbia richiesto ai suoi contractor di svincolarsi dai fornitori cinesi entro il 2027. Un intervento che sembrava chirurgico, volto a colpire nello specifico il rivale americano, ma che ha finito per creare scompiglio lungo le catene del valore mondiali. 

L’utilizzo delle “terre rare” come arma di pressione o ritorsione economica non è nuovo. Pechino all’indomani della crisi diplomatica sulle isole Senkaku/Diaoyu, verso le fine del 2010 con il Giappone, impose un blocco delle esportazioni di terre rare verso le industrie nipponiche, provocando aumenti del 1000% sul prezzo di alcuni di questi metalli, anche per il conseguente panico sui mercati con le industrie coinvolte che fecero ricorso ad un massiccio stoccaggio. Con l’apertura di una disputa commerciale al WTO da parte di UE, USA e Giappone nel 2012, Pechino fu costretto a rimuovere le misure con sentenza del 2014.

Tuttavia, si trattò di una “vittoria di Pirro”: dal 90% dell’estrazione del 2010, la Cina è passata al 58-60% sul totale mondiale dei minerali ospitanti, ma ha consolidato il controllo dell’intera filiera attraverso altri strumenti, come un tetto sulla produzione interna di concentrati fino ad un regime fiscale che incentiva le grandi aziende a controllo statale a raffinare internamente ossidi (REO) e metalli (REM) per l’integrazione della filiera fino alla produzione di magneti permanenti (NdFeB) al neodimio. Questo circuito “chiuso” ha portato la Cina a esercitare un sostanziale controllo sulle dinamiche del mercato, grazie anche a una domanda interna solida (soprattutto dell’industria automotive, dell’elettronica e delle turbine eoliche).

Secondo alcune stime, la Cina ha una capacità di produzione di oltre 400.000 tonnellate, per servire diverse industrie a seconda delle esigenze (peso e forma) e performance. Inoltre, al fine di presidiare e tutelare il suo vantaggio tecnologico Pechino aveva inoltre previsto l’inclusione di asset e processi industriali per estrazione, lavorazione di terre rare e produzione di magneti all’interno dei controlli.
 

Il dominio cinese 


Proprio facendo leva sulla dipendenza occidentale a questo stadio (come anticipato, le esportazioni della Cina verso UE e USA di concentrati di terre rare o altri prodotti contenenti terre rare sono risibili e non strategiche, mentre è sostanzialmente disincentivato l’export di REO), attraverso un regime di presidio delle tecnologie dual-use (Export Prohibited/Export Restricted Technology Catalogue), le aziende cinesi che esportano determinati prodotti (in particolare, i magneti al neodimio o al samario) contenenti una percentuale oltre un certo limite di questi materiali devono richiedere al governo speciali licenze: un processo che può richiedere settimane o addirittura mesi. Da aprile molte aziende americane ed europee hanno lamentato ritardi sulle consegne, con il rischio di dover chiudere alcune attività produttive.

 

Particolarmente esposta l’industria automotive, che vede impiegare i magneti non solo nella produzione di motori elettrici per veicoli a batteria (EV) ma anche in altre decine di applicazioni “minori” (in termini di dimensioni) ma non per questo meno importanti per tenere operative le linee di assemblaggio: trasmissioni automatiche, alternatori, sensori, cinture di sicurezza, altoparlanti, sistemi di illuminazione, servosterzo e telecamere. Non è da escludere che questo rischio possa indurre i produttori a considerare di portare gli impianti in Cina per assicurarsi una fornitura stabile, facendo hedging per nuove e possibili escalation commerciali, considerando che le restrizioni riguardano solo i magneti e non i prodotti finiti o assemblati.
 

Ripercussioni sul settore dell’automotive 


L’apparente accordo raggiunto martedì a Londra sembra per il momento placare i timori sulla supply chain, perlomeno per gli automaker americani che hanno ricevuto garanzie per la concessione delle licenze dopo il faccia a faccia tra i due Paesi. JL Mag Rare Earth, uno dei principali produttori cinesi e fornitori a livello mondiale, ha dichiarato di aver ricevuto dal ministero del Commercio (MOFCOM) cinese il via libera per la spedizione dei suoi prodotti ai suoi clienti, tra cui quelli americani.

Ford, per esempio, aveva interrotto momentaneamente la produzione del modello “Explorer” a maggio presso il suo stabilimento di Chicago per una settimana a causa dei ritardi sulle consegne. La scorsa settimana l’Associazione europea dei fornitori automobilistici aveva a sua volta lanciato l’allarme per la chiusura di diversi stabilimenti e linee di produzione di fornitori automobilistici europei a causa dei controlli sulle esportazioni. Volkswagen, Mercedes e i loro fornitori potrebbero subire notevoli ritardi nelle consegne per via del regime di licenze, con colli di bottiglia previsti già per luglio.

Il fornitore tedesco ZF Friedrichshafen AG (azienda che sta cercando, attraverso la R&D, di affrancarsi dalla dipendenza sulle terre rare per i motori elettrici), seppur abbia rassicurato sulla flessibilità garantita per il procurement verso clienti civili, ritiene vi sia il rischio per l’Europa che l’iter di concessione delle licenze possa condurre comunque a sospensione di alcune attività produttive nel breve termine. Anche le case automobilistiche giapponesi Nissan e Suzuki Motor hanno segnalato interruzioni delle forniture dovute alle restrizioni cinesi, con Suzuki che ha sospeso la produzione della sua Swift. Una dimostrazione che la contesa geopolitica e commerciale tra Washington e Pechino, con l’utilizzo delle loro armi economiche, è destinata a ripercuotersi su supply chain che vedono anche l’UE fortemente interconnessa.

In particolare, la forte esposizione con il settore automotive – che rappresenta uno dei driver fondamentali della domanda di terre rare a livello mondiale, con il contenuto negli EV destinato ad aumentare, salvo lo sviluppo di motori rare-earth free come testimonia lo sforzo di alcune aziende, come Niron Magnetics – e la mancanza di capacità produttiva in scala alternativa alla Cina rendono la supply chain tutt’altro che fuori pericolo. Soprattutto nell’ottica di future contese commerciali e tecnologiche, che potrebbero nuovamente portare Pechino a sfruttare le sue leve. È l’ennesima riprova del rischio di weaponization delle filiere, laddove la dipendenza da prodotti e materiali dalla Cina è particolarmente importante. È altresì probabile che il regime di controlli sull’export applicato alle terre rare magnetiche e non, rimarrà in essere, come per altri materiali strategici come gallio, germanio e grafite. 

Tuttavia, le restrizioni della Cina potrebbero incentivare ulteriormente gli sforzi occidentali per affrancarsi da questa dipendenza attraverso il de-risking – con investimenti in nuovi poli produttivi come quello in Estonia in UE e quello americano incentrato su MP Materials, General Motors e i finanziamenti congiunti del Pentagono, nonostante le difficoltà di operare in un mercato opaco e fortemente influenzato dalla presenza industriale ingombrante di Pechino – e l’innovazione per sviluppare motori elettrici alternativi. La stessa Tesla aveva annunciato di aver ridotto il consumo di terre rare nei suoi drivetrain, ma allo stesso tempo Elon Musk ha enfatizzato i rischi delle restrizioni cinesi rispetto all’esplosione del mercato humanoid (Optimus) e della robotica: un settore che potrà diventare un nuovo, importante mercato di sbocco e di integrazione per il tessuto industriale cinese.

Quello che è certo è che la competizione geopolitica e tecnologica tra USA e Cina continuerà a essere la cornice entro cui si riscriveranno queste e altre supply chain di industrie strategiche, particolarmente sovraesposte sulle forniture di metalli e materiali dalla Cina. Un capitolo della guerra commerciale si sta forse chiudendo sulla base di una de-escalation temporanea, con la concessione di Pechino in cambio di alcune promesse da parte americana. Tuttavia, la lezione principale è che in questo contesto, di forte interdipendenza industriale, altre parti – come l’UE – rischiano di rimanere stritolate dai giochi di forza degli altri attori che giocano tutte le loro carte sul tavolo senza opportune contromisure.

Nel breve termine vi sono poche soluzioni se non confrontarsi attivamente con la controparte cinese (come ha fatto il Commissario europeo, Sefcovic, dopo gli allarmi pervenuti dall’industria automobilistica europea). Nel medio-lungo termine il ventaglio di soluzioni esiste ma è costoso: politicamente, nell’ottica di preservare lo status-quo accettando la dipendenza dalla Cina e le esternalità geopolitiche che ne conseguono; economicamente, se la strada da percorrere è quella del de-risking industriale. Già in essere, ma lontano dall’assicurare l’agognata autonomia strategica che passa, inevitabilmente e sempre di più, dagli asset industriali.

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