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Il non quotato è presente sono in piccola parte nei portafogli. "Occorre adottare una prospettiva di lungo periodo, come accade nei mercati anglosassoni". L'uscita deve essere un'opportunità, non una garanzia. Ne parla Andrea Nascè a Affari & Finanza.
La normativa più favorevole rispetto al passato, l’elevata correlazione tra le asset class tradizionali e la necessità di diversificare fanno crescere l’attenzione verso i mercati privati. È una tendenza che sta cambiando anche l’approccio del private banking, sempre più chiamato a integrare nei portafogli strumenti illiquidi e legati all’economia reale.
«Nei principali Paesi occidentali il numero delle società quotate continua a diminuire», osserva Andrea Nascè, Vice Direttore Generale e Direttore Investimenti Ersel Banca Privata. «Ogni anno scompaiono dalla Borsa molte società e una parte significativa dell’economia non è rappresentata adeguatamente dal perimetro dei mercati pubblici. Se l’obiettivo è accedere ai settori più dinamici dell’economia europea, spesso le opportunità migliori si trovano nel non quotato».
La questione non riguarda solo la disponibilità di aziende, ma anche la possibilità di intercettare imprese che si trovano in fasi di evoluzione interessanti. «Nel mondo non quotato è più facile investire in aziende che stanno vivendo momenti di transizione o che stanno per accelerare la crescita», prosegue. «Non sempre le valutazioni iniziali riflettono appieno questo potenziale».
Il tema delle valutazioni è uno dei punti più sensibili. «Non esiste una regola fissa, ma nel non quotato spesso si incontrano condizioni più favorevoli», sottolinea Nascè. «Nelle ultime tre operazioni di club deal che abbiamo seguito, in media le società confrontabili avevano valutazioni di Borsa superiori di oltre il 30%, se misurate sul classico multiplo che rapporta il valore economico dell’azienda (Ev) al margine operativo lordo (Ebitda). Non è sempre così, perché ci sono periodi in cui il non quotato diventa più caro della Borsa, ma con un lavoro accurato si possono trovare opportunità con un miglior equilibrio tra rischio e rendimento».
Nascè sottolinea un aspetto spesso trascurato. «In molti casi la parte più significativa del percorso di crescita di un’azienda avviene prima della quotazione. Quando arriva in Borsa, una fetta importante è già stata compiuta. Nei private markets, invece, è possibile intercettare fasi di sviluppo più accentuate e, soprattutto, svolgere un ruolo attivo nel percorso dell’impresa. È il caso tipico delle aziende familiari italiane, dove l’ingresso di un fondo – anche con una quota di minoranza – porta managerialità, visione e capacità di leggere opportunità che l’impresa da sola faticherebbe a cogliere».
Nonostante le potenzialità, il peso dei private markets nei portafogli resta marginale. [...] Negli ultimi mesi, però, il quadro si sta evolvendo. «L’introduzione dell’Eltif 2.0 e degli strumenti evergreen semplifica molto l’accesso», osserva Nascè. «Gli evergreen si acquistano quasi come un fondo aperto, investono il capitale subito e offrono finestre di uscita. La difficoltà per chi li distribuisce è evitare che vengano percepiti come strumenti ‘liquidi’. Non lo sono: richiedono orizzonti da cinque a oltre dieci anni. Le finestre di uscita vanno gestite come un’opportunità eventuale, non come una garanzia».
«La responsabilità delle reti è essere trasparenti: nessuna promessa di liquidità facile, nessuna aspettativa irrealistica. Solo così questi strumenti potranno svilupparsi davvero», spiega Nascè. Lo sviluppo dei private markets ha anche un interesse pubblico. «Le raccomandazioni dell’agenda Draghi-Letta sulla competitività europea vanno tutte nella direzione di indirizzare più risparmio verso l’economia reale. Con i private markets questo può accadere: si può sostenere la crescita delle imprese che soffrono di nanismo, finanziare infrastrutture, innovazione, sistemi di accumulo energetico».
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