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La Stampa

PAG. 31 - del 06-mag-2025
Torino non ha voluto la mia collezione. II sistema dell'arte oggi è malato

Gian Enzo Sperone, il gallerista: "Volevo donare 70 tele a Venaria. Ora celebro gli snobbati dall'Arte povera". “Figure, Miraggi Domestici. Pittori a Torino 1900 – 1960” sarà in esposizione nello Spazio Ersel fino al 30 maggio 2025.

Da Torino a New York Gian Enzo Sperone è il gallerista per antonomasia, classe 1939 di Carignano, giacca blu, bretelle, pantaloni grigi a quadri e spirito indomito. La Stampa lo incontra nella Banca Ersel mentre allestisce la mostra "Pittori a Torino 1900-1960": un riavvicinamento alla sua città dopo qualche delusione che racconta in questa intervista.
 

Perché un'esibizione con 120 tele precedenti l'Arte povera?


«Vorrei risarcire i pittori che ho snobbato quando da giovane gallerista davo spazio solo agli avanguardisti. A Carol Rama non parlavo nemmeno se si presentava in modo sguaiato per fare colpo. Non davo retta neppure a Pippo Oriani, futurista con la sigaretta sempre accesa nel bocchino. Ero come Marinetti, volevo chiudere i musei, amavo il Pop americano e divenni assatanato dell'Arte povera, che volente o nolente è stato l'ultimo movimento modernista del secolo scorso, perché dopo sono tutti postmoderni. La grande spinta della ricerca linguistica per uccidere il padre, inventando e non attraversando gli altri come la Transavanguardia, si trova solo nell'Arte povera».
 

Chi altri c'è nella mostra?


«Tutti quelli che noi estremisti radicali abbiamo emarginato pur di sostenere l'Arte povera. Oggi riscopro Piero Bolla, Filippo Scroppo, Piero Rambaudi, Farfa, Enrico Paolucci. Ho scritto pure un catalogo, e non in critichese, perché la mostra dura solo fino al 30 maggio».
 

Lei è anche un collezionista e come tale ha donato 33 quadri antichi, tra cui Guercino e Luca Giordano, all'Accademia di San Luca di Roma. Perché non a Torino?


«Possiedo da una stele greca del V secolo a.C. fino a quadri di Spazzapan e Colombotto Rosso. Da piemontese emigrato cerco da annidi mettermi in contatto con la Galleria Sabauda e con la Reggia di Venaria per restituire qualcosa alla comunità. Avviai pure una trattativa quando Chiamparino era presidente della Regione. Mi invitò a colazione e mi chiese se fossi comunista. Io ex guardia d'onore alle Tombe dei reali al Pantheon! Essendo di origine proletaria non posso che essere di sinistra, ma liberal. Chiamparino mi disse di parlare con Turetta, allora direttore di Venaria e oggi della Sabauda: un incompetente. Volevo donare 70 opere per le Paggerie di Venaria. Il sovrintendente Gianni Romano era d'accordo. Mancava solo la firma. Rientrai apposta da New York, ma Turetta non si fece trovare. In America per una donazione del genere mi avrebbero mandato una limousine. Poi si è fatta viva l'Accademia di San Luca con più motivazione». [...]
 

Lei come ha iniziato?


«Quando avevo 17 anni uscì la prima traduzione di Foglie d'erba di Walt Whitman, che sconvolse me abituato a Pascoli e Carducci, e mi fece incuriosire sulla cultura americana oltre a farmi spezzare la penna da poeta e a prendere la via dell'arte. Nella mia Carignano frequentavo i pittoracci locali. Gente che non sapeva esprimersi, ma i cui quadri mi parlavano. Gianfranco Tamagnone, uno di loro, mi regalò un quadro che pareva Bacon. Da fuoricorso incallito di Lettere andai a lavorare alla galleria torinese più importante, la Galatea del banchiere Mario Tazzoli. Lì imparai da Anita Dolza la partita doppia e la differenza tra un quadro bello e uno brutto».
 

E qual è?


«Il bel quadro riguarda il linguaggio, il brutto la decorazione che può riuscire qualche volta, ma come dice Borges ci vogliono anni per capire se uno scrittore sia formidabile. Solo col tempo si comprende se un artista attinge alle proprie ossessioni o è un derivato di altri. L'errore da evitare è comprare i derivati». [...]
 

E vero che all'inizio la finanziò l'Avvocato Agnelli?


«Riuscii a convincerlo in un appuntamento di cinque minuti. Mi fece aprire una linea di credito all'Ifil per comprare gli artisti americani. A lui non piacevano, ma lo divertiva l'idea di un torinese che si dava da fare a New York. Comprò una bandiera americana di Jasper Johns, che gli portai agganciata sul tetto della 500 alle 8 del mattino. Vedeva sempre più avanti di tutti, capì la potenza del contemporaneo e ne prese altri. Il mio primo vero collezionista fu Morone, il notaio della Fiat, che veniva a tutte le inaugurazioni con la segretaria e comprava ogni volta Warhol, Lichtenstein, Rosenquist, Jim Dine, tutti a massimo 1200 dollari l'uno. Altri appasionati erano Marco Brignone, Corrado Levi e Gian Maria Pellion di Persano, col cui fratello Giorgio aprii una galleria di multipli di qualità, e la cui moglie Anna Peyron, oggi regina delle rose, lavorava con me e ha scritto libri bellissimi su quel periodo».
 

Come divenne il gallerista dell'Arte povera?


«Erano miei coetanei, ci vivevo in mezzo, non come adesso che gli artisti sono cani sciolti. Ricordo Merz, Zorio, Anselmo. Pistoletto era a sé stante, ma li vedeva di buon occhio. Il bacino di Torino però non bastava per tutti questi artisti, così andai a Parigi a conoscere Ileana Sonnabend, prima moglie del gallerista Leo Castelli, mio ispiratore, e lei li mise tutti sotto contratto. Non aveva senso per me tornare a Torino. Prima andai a Milano, poi a New York. Da cattolico, lo sono tuttora, scoprii l'efficienza dei protestanti. E conobbi tanti artisti dell'altro mondo»

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