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Dicembre 2005 – Febbraio 2006

Mostra fotografica
Vik Muniz

A cavallo tra il 2005 ed il 2006, in collaborazione con la galleria PhotoeContemporary di Torino e Gian Enzo Sperone di New York è stata presentata Vik Muniz nelle Collezioni Italiane, una significativa selezione delle opere dell’artista brasiliano, considerato uno dei più interessanti sperimentatori nel panorama artistico internazionale, le cui opere sono presenti nelle collezioni permanenti dei più prestigiosi musei americani ed europei.

 

Nato a San Paolo nel 1961, scenografo, pittore e scultore, dalla fine degli anni ottanta ha concentrato la sua attenzione sulla fotografia con l’intenzione di espandere le possibilità espressive del mezzo attraverso una sorta di sincretismo stilistico.

Grazie alla contaminazione dei linguaggi e ad una costante ed acuta riflessione sui meccanismi della percezione, Muniz è riuscito a creare opere visuali sorprendenti. Utilizzando materiali di uso comune (ovatta, fili di lana, terriccio, fil di ferro, inchiostro, ritagli di giornale, monete, soldatini) o prodotti alimentari (cioccolato, zucchero, succo di pomodoro, caviale) per disegnare sul set i soggetti ripresi dall’apparecchio fotografico, l’artista giunge ad ottenere una sorta di continuità tridimensionale fra immagine e materia, fra apparenza e realtà. Il risultato finale è dunque la fotografia dell’opera e non l’opera in sé, perché, come afferma l’autore stesso, solo la fotografia riesce a rendere efficacemente l’aspetto ideativo del processo artistico. Il legame concettuale fra soggetti e materiali con cui vengono rappresentati è particolarmente intrigante e ironico, attingendo all’essenza mnemonica della cultura visiva universale attraverso la storia dell’arte e le sue icone, i grandi avvenimenti della storia, i volti famosi della nostra epoca.

Un gioco sottile e dialettico dunque tra rappresentazione ed interpretazione, tra evidenza e simulazione in cui lo spettatore è chiamato a compiere uno sforzo di rielaborazione per decodificare il senso dell’immagine davanti ai propri occhi.
Trasformando l’espressione fotografica in oggetto simbolico e allegorico, Muniz ne rivela il carattere occulto e ingannevole: non c’è più nulla che separi il simulacro dalle componenti stesse del reale; la realtà è apparenza, quanto l’apparenza una forma materica e spettacolare di realtà. 
A Vik Muniz sono state dedicate importanti esposizioni personali presso istituzioni pubbliche e private e le sue opere sono presenti nelle collezioni permanenti dei più prestigiosi musei americani ed europei.

 

Vik Muniz nelle collezioni italiane

Una mostra realizzata da Ersel in collaborazione con
Photo & Contemporary - Torino
Gian Enzo Sperone - New York

L’opera di Vik Muniz rappresenta nel mondo dell’arte un unicum, un esempio cristallino della raggiunta “fusione a freddo” tra pittura e fotografia, della perfetta sintesi tra materia e forma la cui energia visiva può alimentare una nuova estetica: quella che il critico Germano Celant ha chiamato “mimesi della mimesi”. Per addentrarsi in questo nuovo grado della realtà, nel quale arte e magia, concetto e illusione diventano tutt’uno, bisogna spogliarsi di alcune convinzioni radicate: quella fondamentale è che un pigmento o qualche grammo di grafite abbiano, soltanto perché accreditati dalla storia dell’arte, il diritto esclusivo di offrirsi come materia utile a rappresentare il mondo in immagini ad esso somiglianti. Vik Muniz usa tutto, tranne i suddetti materiali. La sua arte sprigiona l’energia creativa dell’artista postmoderno, capace di rivolgere il serio in faceto e viceversa: come quando ritrae Karl Marx con il caviale o i bambini che lavorano nelle piantagioni con lo zucchero che essi stessi producono.

Cresciuto nel Brasile degli anni settanta, Muniz ha sviluppato una idiosincrasia per la manipolazione dell’informazione dovuta alla radicata conoscenza di quel “mercato nero semiotico” prodotto del regime militare dell’epoca e per il quale, come lui stesso ricorda, “sembrava che in ogni frase si celassero messaggi segreti”. Muniz, allora, reagiva copiando nei musei le opere d’arte antica, dimentico di quella contemporanea. Oggi, dopo aver studiato comunicazioni di massa, lavorato nella pubblicità e nel teatro, è uno dei più interessanti sperimentatori dell’immagine. Artista e intellettuale raffinato, si nutre di filosofia, poesia e sa disegnare con qualsiasi materiale. Appartiene alla genia dei costruttori di strumenti, di coloro che non si contentano di suoni prefabbricati, ma ne ricercano di propri per comporre la propria musica. Apparentemente, Muniz sembra impegnato nel manipolare con ironia ogni idea visiva, ma il suo lavoro è più intenso e rivolto verso un fine che è, forse, quello ultimo di tutta l’arte, da sempre: far sì che l’illusione, che ci sorprende e meraviglia, possa migliorare la nostra comprensione del mondo, fungendo da strumento interpretativo ma anche decostruttivo di certezze pigramente accettate per vere. Per far ciò Muniz usa la fotografia, con cui, dice, è possibile “imballare disegno, scultura, pittura e teatro in un unico fagotto ben stretto”. Tale potere lo scopre casualmente. Documentando una delle sue prime mostre di scultura, si accorge che “le foto comunicavano il codice tridimensionale degli oggetti senza il fardello di peso e volume” e che esse “coglievano meglio l’aspetto con cui quegli oggetti si erano affacciati alla mia mente in origine”.

Dal 1987 l’artista brasiliano ha creato decine di serie fotografiche, utilizzando materiali di uso comune (ovatta, fili di lana, terriccio, fil di ferro, inchiostro, ritagli di giornale, monete, soldatini) o prodotti alimentari (cioccolato, zucchero, succo di pomodoro, caviale) per costruire immagini in cui le specifiche caratteristiche dei materiali hanno un doppio ruolo di elemento formale e concettuale, capace di offrire qualità plastiche e concentrare significati che si stratificano nel processo di produzione dell’immagine. Affinchè “l’illusione della realtà” venga colta come “realtà dell’illusione”, come strumento indispensabile del nostro stare al mondo e del nostro apprendere imitando, Muniz usa un processo di costruzione dell’immagine “metafisicamente corretta”. I materiali dialogano con i soggetti, cui segue la preparazione del set fotografico, la costruzione meticolosa e abile della “matrice”, la sua fotografia (scatto unico e niente ritocchi) e la distruzione dell’originale. Lui li chiama “piccoli happening privati”. Germano Celant invece usa la definizione di “fotografia performativa” e pone Muniz dentro quell’ulteriore “salto linguistico” che negli anni ottanta trasforma la fotografia da “procedimento segnico”, che riprende le concezioni delle avanguardie storiche da Man Ray a El Lissitsky, alla fotografia come “oggetto” o come “esperienza pura” indipendente da ogni referenzialità. In questo nuovo slancio si riconoscono fotografi come Joel-Peter Witkin, Gregory Crewdson, Thomas Demand o Chuck Close.

Le grandi fotografie di Muniz, che ripercorrono la storia dell’arte, i grandi avvenimenti della storia dell’umanità e i volti famosi della nostra epoca, ci pongono di fronte al problema della loro fruizione: come guardarle? Quale insegnamento trarne? “Non voglio che lo spettatore creda alle mie immagini, voglio che sperimenti la portata della sua fiducia nelle immagini”, risponde Muniz. Le sue sono visioni della cultura di massa, istanti di un Media Evo condiviso. Ma questo è soltanto un aspetto: non appena ci si sofferma sul fatto che l’artista brasiliano ha usato lo sciroppo di cioccolato per ritrarre Sigmund Freud o Jackson Pollock, o che ha ottenuto la Gioconda dalla senape e la testa di Medusa di Caravaggio dentro un piatto di tagliatelle al sugo, siamo felicemente indotti alla meraviglia e ad un subitaneo sentimento di simpatia. Il “libero gioco delle facoltà” mentali, che per il filosofo tedesco Immanuel Kant è causa del nostro senso di piacere di fronte all’arte, trova in Muniz un nuovo discepolo; il protagonista di un rinnovato Rococò mentale, che lo accomuna idealmente ad artisti come Yinka Shonibare o come Chris Ofili, impegnati a tradurre in un’arte apparentemente gaia una profonda partecipazione alla vita collettiva e alla propria condizione esistenziale. Come loro, anche Muniz è conscio del fatto che “il canone euroamericano ha bisogno dell’esotico, dell’outsider, del regionale e del tradizionale per affermare la propria identità nel magma della contemporaneità”. Forse, anche per la sua formazione transfrontaliera, il “gioco” preferito del brasiliano è quello della “transitorietà del significato”: la specifica proprietà dei segni, e dei sensi, di somigliarsi, di equivalersi, di poter stare gli uni al posto degli altri, trasformando il mondo in un crogiuolo pieno di simboli, dove i significati ribollono, si fondono e rinascono. La transitorietà è il principio che permette l’esistenza di forme miracolose, equivalenze inaspettate, ambiguità, delocazioni e ubiquità dei significati. L’arte di Muniz è il luogo in cui si tenta la fusione di questi elementi. Tutte le serie dei suoi lavori lo testimoniano: Best of Life (1988 – 1990), Individuals (1992 – 1993), Equivalents (1993), Shadowgrams (X-Rays) (1993 – 1994), Pictures of Wire (1993 – 1997), Pictures of Thread (1995 – 1998), The Sugar Children (1996), Principia (1997), Pictures of Holes (1997), Pictures of Soil (1997 – 1999), Pictures of Chocolate (1997 - 1999), Aftermath (1998 – 1999), After Warhol (1999), Pictures of Ink (2000), Pictures of Dust (2000), Beggars After Rembrandt (2001), Pictures of Color (2001), Pictures of Air (2001), Pictures of Cloud (2001), Prisons After Piranesi (2002), Pictures of Heartworks (2002), Monadic Works (2003), Pictures of Magazines (2003), Pictures of Nails (2003), Pictures of Coins (2004), Pictures of Caviar (2004).


Il loro minimo comune denominatore risiede nella “magia” che, secondo Muniz, è il momento in cui un cerchio tracciato per terra con un gessetto “diventa”, per via di una paradossale “convenzione naturale”, il Sole; momento in cui una manciata di materia si organizza in forma e diventa simbolo capace di stare al posto della cosa reale. Muniz cerca di catturare questa “magia” disegnando con materiali inconsueti e ricchi di sorprendenti qualità sensuali e luminose. Il suo fotografare la materia che mima dipinti, i quali a loro volta mimano oggetti, persone o paesaggi, nasce da uno stupore iniziale che l’artista sente di condividere con i contemporanei di Giotto, i quali accusarono di “stregoneria” quei nuovi pittori capaci di dare profondità e crudo realismo alle rappresentazioni, attraverso il semplice uso di pochi pigmenti e regole prospettiche ancora sconosciute.

Vik Muniz nutre un profondo interesse per la letteratura dedicata a quelle forme che appaiono in luoghi inconsueti, come dentro le venature delle rocce, sul manto degli animali o nell’aspetto cangiante delle nuvole. Lo affascina il fatto che una cosa possa improvvisamente assumere le sembianza di un’altra, come avviene nelle metamorfosi ovidiane, lasciando aperta la possibilità che siano le forme stesse ad essere inscritte le une nelle altre ed a generarsi tra loro attraverso un rapporto organico. Convinto che tutta l’arte, anche la più realistica, sia una illusione e che questa sia la potente alleata della verità, molto anti-dogmaticamente Muniz dichiara: “preferisco le rappresentazioni di rappresentazioni rispetto alla cosa in sé”. Il gioco delle illusioni di illusioni è meglio della nuda verità. L’arte è più reale del reale, poiché è illusione. E del resto, come dice Shakespeare, noi stessi “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno”. O forse, siamo addirittura simboli di simboli, inscritti come forme tra forme nell’universale album del creato.

Muniz si presenta, dunque, come un “dottor sottile”, un fine pensatore di quel miracolo che è la rappresentazione. Un miracolo che ormai non vediamo più, congestionati come siamo dalla proliferazione di immagini di tutti i tipi e dal commercio quotidiano che con esse intratteniamo. Per nostra fortuna, e dei nostri sensi, la profondità della riflessione di Muniz non lo rende un iconoclasta concettuale e minimalista. Egli non decapita la figurazione, ma anzi ne esalta tutto il potere simbolico, plastico, rappresentativo. In questa sintesi squisita, che passa attraverso materiali soffici, eterei, sensuali, luminosi, ironici o provocatori, vive e si evolve un corpus di opere capaci di tracciare una biografia intellettuale dell’artista che è anche un “museo immaginario” aperto al pubblico, anzi, spalancato come un Luna Park, affinchè (e in ciò dimora il “populismo” di Muniz individuato dal critico Dan Cameron) gli spettatori possano apprendere, “giocando”, la fragilità delle proprie difese contro gli assalti delle illusioni. Siano esse visive o ideologiche. L’intrattenimento che l’abilità tecnica dell’artista mette in scena per noi, si scopre dunque maestro di un grande insegnamento: la “consustanzialità”, direbbero i teologi medievali, dell’essere e dell’apparire. Nella “ripetizione differente” di ogni sua immagine, Muniz ci inocula il virus dell’illusione. In modica quantità, come un omeopata, per permetterci di riflettere, di costruire i nostri anticorpi. 
La storia dell’arte appare dunque un pretesto per trattare l’essenza dell’immagine e la logica della rappresentazione. Al punto che la domanda suscitata da Muniz, secondo la critica d’arte e scrittrice francese Christine Millet, sarebbe: “viviamo in un mondo di oggetti oppure in un mondo di immagini di oggetti?”. L’artista esprime il proprio scetticismo così: “la maggior parte della nostra memoria è monopolizzata da eventi cui non abbiamo partecipato”, e condivide con Socrate, padre dell’ironia, l’avversione per la superficialità del senso comune, che a volte può franare lasciando spazio a “nuove esperienze”. L’arte di Muniz, con le sue associazioni improbabili, è una di queste. Essa vuole creare una illusione semplice e rudimentale, che mentre ci inganna denuncia il meccanismo stesso dell’inganno e ci rende più consci del piacere che proviamo nel “libero gioco” delle nostre facoltà. In questo modo Muniz crea dei cortocircuiti percettivi, che rimandano al nostro modo di percepire il mondo e quindi di conoscerlo.

Per noi, oggi, risulta normale che un disegno di grafite possa cogliere aspetto e psicologia di un volto, ma se a farlo è un materiale come la melassa sulla quale passeggiano formiche allora ciò risulta miracoloso. In questo senso Muniz è un artista che “fa miracoli”, come ai suoi tempi li fece Masaccio con la prospettiva de La Trinità di Santa Maria Novella. O come, è lo stesso Muniz a raccontarlo, fece Lorenzo Ghiberti sulle porte del Battistero a Firenze, dimostrando che l’intelletto e la materia possono raccogliersi in una sintesi perfetta capace di esaltarli ed eliderli vicendevolmente.
Il tipo particolare di engagement di Muniz, non è dunque di tipo sociale o politico, ma è, più profondamente, estetico e cognitivo. La sua arte riguarda il modo di comunicare la realtà, senza giudicarla, e produce consapevolmente una riduzione di distanza tra Arte ed intrattenimento. La sua fotografia è anticonvenzionale, “contro la retorica dell’inventario assoluto” che registra il già dato e “ci rende schiavi del mezzo”. Vik Muniz è piuttosto un costruttore di ponti, capace di legare insieme il dettato postmoderno della citazione disimpegnata con la caparbia volontà barocca di costruire immagini del mondo attraverso un’arte combinatoria (leibniziana) e secondo forme, proporzioni e materiali attentamente studiati al fine di ottenere imponenti effetti drammatici, composizioni dense di significato e di pathos. Questo è il suo modo di “digerire” la perpetua indigestione d’immagini in cui viviamo, e che guardiamo senza più vedere (o sapere di vedere). Come dice lui: “non c’è più nulla da fotografare, se vuoi fotografare qualcosa di nuovo, devi prima crearlo”.

Nicola Davide Angerame

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